Capitolo XXIII

La casa con le vetrate

Tre famiglie della borghesia medio-alta ed alcuni personaggi non di contorno vivono amori, amicizie e professioni scambiandosi confidenze ed affetti; si può considerare un romanzo di costume figlio di un certo cinema francese degli anni ’70 cosiddetto confidenziale o intimistico di cui Michel Piccoli è rimasto l’interprete più significativo insieme ad un giovane Gérard Depardieu.
Il racconto si sviluppa nella periferia toscana ma, pur nella attenta e particolareggiata descrizione dei paesaggi, potrebbe avere ambientazione ovunque per la universalità dei temi trattati. Si osservano qui gli animi umani nelle loro relazioni geometriche più sottili e complesse e si fanno oggetto di una trama che si snoda in situazioni molto vicine alla realtà e particolarmente aderenti al mondo di oggi. La casa, che compare fin dalle prime battute del romanzo, ha un chiaro significato allegorico. Questo romanzo, il più conosciuto fra quelli di Aldo Carpineti, è stato scritto in parte nell’ultimo anno del periodo toscano dell’autore e per il resto contemporaneamente al suo rientro a Genova.

Aldo Carpineti

Aldo Carpineti
È nato a Genova il 12 ottobre 1949. Dopo la gioventù genovese, liceo Classico e laurea in Giurisprudenza ha fatto del cambiamento un modo di vivere; si è spostato per lunghi periodi nel Veneto e nelle Marche, tre anni a La Spezia, sedici in Toscana, per poi fare ritorno ogni volta alla vegia Zena. Prima sottotenente di vascello in Marina, poi funzionario aziendale nelle relazioni industriali, è stato anche manager di gruppi professionisti di musica classica, barocca, jazz. Ha pubblicato Stanzialità e Transumanze (2003) riflessioni in epigrammi su argomenti di varia natura, Finestre su Paesaggi Miei (2004) due racconti di cui il secondo è un noir, La casa con le vetrate (2006), Un amore Maturo (2012). Fra tutte le cose che fa abitualmente non c’è nulla che gradisca quanto sedersi al tavolino di un caffè o di un ristorante in compagnia della figlia Giulia.

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Dic 12

Capitolo XXIII

Capitolo Ventitreesimo

di Aldo Carpineti

capitolo ventitreesimo

Quando Nicole era a Pescia, facendo uno spostamento di un centinaio di metri dal negozio di Borgo della Vittoria, verso metà del pomeriggio incontrava Giovanna per un tè o una cioccolata ad un tavolino del ‘Centrale’, il caffè gestito dalla signora Carla e dalla figlia Elena. Si poteva star certi che Nicole e Giovanna, in quei loro ‘vis à vis’, non rimanessero mai a corto di argomenti di conversazione perché, oltre ad appartenere a realtà sociali simili, avevano press’a poco la stessa età e, senza dubbio, l’una e l’altra, personalità moderne, seppur diverse. Non di rado, quando i loro figli non rientravano a casa per impegni loro, le due donne si trovavano al Centrale anche all’ora di pranzo per gustare insieme le ben note focaccine ripiene di prosciutto crudo mascarpone e rucola oppure, in alternativa, di spinaci e ricotta accompagnate da un bicchiere di birra alla spina.

Nicole aveva la corporatura minuta e la ‘erre’ arrotolata; un impertinente nasino all’insù très français, alla maniera de la Marianne, capelli biondissimi raccolti dietro con un semplice elastico, poco più che un simpatico scopino; ma quando, a cadenze non regolari, visitava latelier di Paolo, il coiffeur pour dames marito di Carla, lui sapeva trasformare quella testa scapigliata nella pettinatura più raffinata e sofisticata che si vedesse in giro. Per correggere la miopia, peraltro non molto accentuata, portava occhiali con montatura metallica dorata leggera, scuri nelle giornate di sole, anche quelle invernali: aveva una predilezione per i Ray-Ban tradizionali, ai quali abbinava lenti graduate per adattarli alla sua vista, ma le piaceva disporre di una vasta scelta di lunettes da alternare sur son visage a proprio piacimento. Col freddo amava indossare berretti di lana spiritosi, intonati con la sciarpa, dai colori sfumati a righe concentriche, che calzava schiacciati da una parte e gonfi dall’altra, come lievitati, un po’ a monellaccio marsigliese del primo ‘900; non potevano mancare jeans con lustrini e stivali a punta tinti d’azzurro, con bordo della suola a pneumatico di automobile. In ognuna di quelle poche occasioni in cui vestiva una mise classica e, di regola, col vestito lungo, azzardava persino guantini di pizzo e cappelli a tesa larga con veletta a rete tipo belle époque. Per molti cette façon era troppo stravagante, in ogni caso, ma più che mai adesso, considerata la recente vedovanza; invece faceva parte del suo personaggio e del suo stile e nessuno avrebbe dovuto dimenticare che Nicole gestiva negozi di moda e il look rappresentava promozione di se stessa ma, soprattutto, che era una donna dei suoi giorni, ancora giovane, attraente e piena di vita. 

Nicole e Giovanna avevano più volte chiesto ad Angela di essere con loro per il tè, ma lei aveva sempre declinato l’invito con garbo e gentilezza. Non che si sentisse a disagio con le due amiche un po’ snob e più giovani di quasi quindici anni, ma non le era facile abbandonare il lavoro in momenti della giornata che, per lo studio di piazza Mazzini, erano assolutamente di punta. Del resto per Giovanna e Nicole trovarsi era più facile anche per il motivo molto semplice che abitavano tutt’e due in centro: e perciò loro, di questa sua ritrosia, non gliene avevano mai fatto una colpa.

Fu proprio in occasione di uno dei loro incontri davanti a due tazzine che Giovanna sentì alle sue spalle il risuonare improvviso di una voce baritonale, senza tentennamenti: “Buona sera belle signore, offro io i vostri caffè; non dite di no, finalmente ho l’occasione per farlo”. Nicole alzò il viso e riconobbe Andrea Luzato, insegnante in un istituto statale di Pistoia; sì, era proprio lui, qualcuno glielo aveva presentato davanti ad una bancarella della mostra dell’antiquariato, una domenica o l’altra, in Piazza del Grano; avevano scambiato poche parole, quella sera: lei, nel suo italiano molto transalpino, gli aveva chiesto se abitasse a Pescia, lui aveva risposto affermativamente, guardandola fissamente negli occhi.

In quel momento anche Giovanna si era voltata, come in un riflesso condizionato; inquadrò il volto barbuto del docente e si chiese istintivamente se lo avesse già visto. Le due amiche, per quanto un po’ sorprese dalla disinvoltura invadente di questo signore, gli fecero posto al loro tavolino tondo e Nicole, precedendo Giovanna, domandò a Luzato cosa prendesse; quindi, facendo un gesto con la mano verso il bancone, per richiamare l’attenzione di Elisa o Linda, chiese una spremuta d’arancia per il professore. Andrea Luzato aveva un’età fra i quarantacinque e i cinquanta e un aspetto imponente anche se non era altissimo; la camicia bianca gli sagomava una cassa toracica esuberante sopra la cintura alta; aveva addosso un cappotto blu notte, sbottonato, lungo quasi fino ai piedi, col bavero alzato, e teneva le mani infilate nelle tasche; soltanto la cravatta, dai colori incerti sul marroncino, portata a lungo e non stirata, dava il senso di un particolare trasandato e sciatto, che però non comprometteva l’immagine della persona intera. Il viso, dai tratti vagamente orientali, era incorniciato da una barba nera, di un paio di centimetri, curata, appena sfiorata da qualche ombra di grigio; aveva capelli fitti, lisci e accuratamente pettinati, di una perfezione incompleta soltanto per una piccola calvizie sulla sommità del capo. Il suo sguardo era lampeggiante, scuro e tuttavia infuocato, penetrante e altero, come tutto il suo portamento; assomigliava a uno dei tre moschettieri, mantello compreso o, piuttosto, aveva qualcosa di corsaro, di rapace. Certo non gli mancava la magniloquenza, né l’ampia teatralità del gesto ma, scapolo impenitente, alcuni lo avevano sentito ripetere, nei rari momenti in cui non nascondeva la misura dei propri limiti che, quando si fosse sposato, avrebbe perso l’ottanta per cento della sua vitalità e del suo spirito esplosivo.

“Credete al destino? sono convinto che questo incontro non sia casuale; sapete, io sono un po’ mago e sono convinto che le cose non avvengano per caso; non pensate che questo pomeriggio sia successo qualcosa, fra noi, che riguarda l’umanità intera?” disse, e Giovanna pensò che, con questa boutade, cercasse di caricare ancora di più il suo carisma di mistero.  “Sono dell’idea – continuò invece facendo frequenti punti fermi perché le sue parole cadessero ancora più pesanti - che le vite della persone abbiano un filo logico che le accomuna e le rende interdipendenti. Il pensiero di tutti decide delle sorti di ognuno. Siete d’accordo? Se vi soffermate a considerare queste cose, che forse sembrano astruse, vi accorgerete che sono la realtà di tutti i giorni”. Le due donne per un attimo rimasero perplesse e si lanciarono, di sfuggita, una reciproca occhiata interrogativa; poi deviarono la conversazione su argomenti più quotidiani, dai quali però il professore sembrava annoiato.

Ma il giorno dopo Luzato era di nuovo lì, all’appuntamento delle quattro del pomeriggio. Riprese il discorso interrotto: “Viviamo finché gli altri ce lo consentono; si muore quando gli altri, o l’inconscio collettivo, non traggono più vantaggio da noi. Ogni nostro sforzo per vivere o semplicemente per cambiare la nostra condizione ha efficacia non tanto singolarmente ma distributivamente, non siamo monadi…. Gottfried Leibniz batti un colpo! il movimento individuale trasforma la realtà generale”. Giovanna cessò di essere indifferente, anche per porre un freno all’impeto della dialettica di Luzato, che le sembrava una prepotenza verbale: “Non posso pensare – osservò - che quello che faccio io abbia risultati di tali proporzioni”. “Le sue azioni e la sua conoscenza, cara signora, hanno un effetto a sasso nello stagno – andò avanti il professore - il cerchio si allarga concentricamente e incontra le realtà degli altri che, in conseguenza, hanno una reazione simile, anche se non necessariamente di egual segno; Newton non era uno sprovveduto. Il processo, essendo reciproco, teoricamente si moltiplica all’infinito, si esalta all’ennesima potenza; anche se, in pratica, la spinta di ogni forza va esaurendosi gradualmente, si generano continuamente nuovi dinamismi, l’azione o semplicemente il modificarsi di uno provocano una rivoluzione globale. Così il movimento universale, che è moto perpetuo, fa accadere attorno a ciascuno di noi quello che sembra dovuto al caso, ma che casuale non è; l’etere è pieno di influssi che la logica positivistica non riconosce, perché non cadono sotto i nostri sensi: l’individuo agisce secondo la propria volontà, ma ha tutt’attorno una rete di nessi necessari che non può ignorare, anche se spesso non ne è cosciente; accanto a noi c’è un mondo di cui non ci accorgiamo e ognuno di noi umani ha in comune con gli altri molto più di quanto non si creda. Viviamo inseguendo il nostro destino, inteso non come la morte ma come la vita preparata per noi dal presente assoluto e raggiungerla è realizzarci; senza nulla togliere al primato del libero arbitrio, sono convinto che qualcosa delle teorie deterministiche e meccanicistiche vada salvato; - il professore sembrava non fermarsi più. - Il veicolo privilegiato di questo processo, dopo l’azione fisica, è la comunicazione, parlata o anche scritta, ma il pensiero si trasmette persino nel silenzio: per queste ragioni è necessario che comunichiamo in modi corretti; ma la gente, malata di illuminismo e razionalismo, non se ne vuol dare per intesa”. Luzato concluse così, disse di avere un impegno, si scusò e andò via.

“Nicole, quest’uomo è davvero sorprendente - disse Giovanna, quasi seccata per essere stata costretta a rimanere in ascolto passivo dal tono del professore più che dal senso delle parole di questi – il primo a comunicare in modi poco corretti è proprio lui; non riesco ancora a capire se val la pena di dargli credito o se abbiamo a che fare con un cialtrone; ne vedremo delle belle….”. Nicole per qualche attimo rimase in silenzio, sembrava che quell’incontro l’avesse scossa, poi alzandosi lentamente dalla sedia, rispose a monosillabi: “je ne sais pas, non so, je n’avais jamais connu un homme comme ça”, non avevo mai conosciuto un uomo così, sono disorientata, cependant il m’intrigue, però m’intriga”, guardò insistentemente, secondo un suo vezzo, le proprie unghie lucide di smalto perla, e si appoggiò sulle spalle il giubbotto di cuoio ruvido. Le due donne si salutarono con una stretta di mano appena accennata e baciandosi sulle guance: “à tout à l’heure” sussurrò Nicole affettuosamente, “a presto, cara” rispose Giovanna che, uscita dal Caffè, attraversò la strada e si diresse verso piazza XX Settembre camminando con passo molto risoluto e a testa alta, per riappropriarsi della sua autorevolezza abituale.

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