Capitolo XXVIII

La casa con le vetrate

Tre famiglie della borghesia medio-alta ed alcuni personaggi non di contorno vivono amori, amicizie e professioni scambiandosi confidenze ed affetti; si può considerare un romanzo di costume figlio di un certo cinema francese degli anni ’70 cosiddetto confidenziale o intimistico di cui Michel Piccoli è rimasto l’interprete più significativo insieme ad un giovane Gérard Depardieu.
Il racconto si sviluppa nella periferia toscana ma, pur nella attenta e particolareggiata descrizione dei paesaggi, potrebbe avere ambientazione ovunque per la universalità dei temi trattati. Si osservano qui gli animi umani nelle loro relazioni geometriche più sottili e complesse e si fanno oggetto di una trama che si snoda in situazioni molto vicine alla realtà e particolarmente aderenti al mondo di oggi. La casa, che compare fin dalle prime battute del romanzo, ha un chiaro significato allegorico. Questo romanzo, il più conosciuto fra quelli di Aldo Carpineti, è stato scritto in parte nell’ultimo anno del periodo toscano dell’autore e per il resto contemporaneamente al suo rientro a Genova.

Aldo Carpineti

Aldo Carpineti
È nato a Genova il 12 ottobre 1949. Dopo la gioventù genovese, liceo Classico e laurea in Giurisprudenza ha fatto del cambiamento un modo di vivere; si è spostato per lunghi periodi nel Veneto e nelle Marche, tre anni a La Spezia, sedici in Toscana, per poi fare ritorno ogni volta alla vegia Zena. Prima sottotenente di vascello in Marina, poi funzionario aziendale nelle relazioni industriali, è stato anche manager di gruppi professionisti di musica classica, barocca, jazz. Ha pubblicato Stanzialità e Transumanze (2003) riflessioni in epigrammi su argomenti di varia natura, Finestre su Paesaggi Miei (2004) due racconti di cui il secondo è un noir, La casa con le vetrate (2006), Un amore Maturo (2012). Fra tutte le cose che fa abitualmente non c’è nulla che gradisca quanto sedersi al tavolino di un caffè o di un ristorante in compagnia della figlia Giulia.

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Dic 17

Capitolo XXVIII

Capitolo Ventottesimo

di Aldo Carpineti

capitolo ventottesimo

La sera precedente Luca, Roberto e Valentina se l’erano spassata un sacco. Angela aprì prima della cena un barilotto di splendide acciughe sotto sale dei mari del nord e le propose a mo’ di stuzzichini, con riccioli di burro di San Candido; aveva preparato in casa la cecina e il pane arabo e cucinato un pollo in fricassea, con i fagioli di Sorana: ci bevvero sopra un vino leggero delle terre spezzine, schweppes tonica e acqua minerale naturale; dulcis in fundo, si videro servire, con tè freddo alla pesca, befanotti lucchesi e necci ripieni di ricotta preparati da Angela con tutti i sentimenti, secondo la tradizione della Svizzera pesciatina, ove lei affondava le sue abitudini più radicate. In fondo a tutto, soltanto Valentina gustò un dito di Porto. Una dieta non propriamente leggera ma, per gli stomaci dei ragazzi, abituati a tante battaglie, il problema non si pose neppure. Una quindicina di minuti dopo le ventidue, venne l’avvocato Crespi a riprendere la figliola che, intanto, aveva fatto a tempo ad andare in brodo di giuggiole per Brad Pitt, godendosi già più di metà del film ‘Ti presento Joe Black’, che Luca aveva noleggiato per l’occasione: Crespi si sedette con loro ed attese che la pellicola terminasse. Poi padre e figlia ringraziarono di cuore Angela e Federico e si immersero nell’acquerugiola della nottata che aveva già ricoperto tutta quanta la Mercedes Kompressor dell’avvocato. Sarà per l’ora, alla quale non erano abituati, sarà per il vinello ligure, Luca e Roberto, appena coricatisi nelle due camerette affiancate dell’angolo notte in casa Olmo, cascarono entrambi come piombi a poca distanza di tempo l’uno dall’altro.

Negli ultimi tempi il modo di vestirsi di Roberto si era trasformato: il ragazzo aveva sostituito giacche blu da figurino, camicie bianche e cravatte ‘regimental’ con un abbigliamento ‘casual’, ma sarebbe più appropriato definirlo ‘andante’, sempre pulito, per carità, ma mai troppo curato; più nessuna attenzione ai rigorosi canoni della buona società né alle invenzioni degli stilisti di grido; si sarebbe detto che la sua tendenza in fatto di vestiario fosse diventata quella di portare abiti rispondenti piuttosto a requisiti di pratica comodità; ci fu chi lo considerò un bel passo avanti nell’apprezzare le cose di sostanza invece che le fatuità; altri la ritennero una caduta di stile. Non c’è dubbio che diverse e tutte rispettabilissime ragioni possono indurre a preferire legittimamente l’uno o l’altro dei due punti di vista: ma fra i sostenitori del primo c’era anche Luca, per il quale gli abiti erano stati sempre e soltanto qualcosa per coprirsi. Ed a Roberto questa interpretazione al dilemma data dal suo amico era più che sufficiente per sentirsi nel giusto. Parere opposto gli aveva invece esternato Valentina, che prediligeva l’espressione classica in ogni campo del proponibile umano, secondo le linee guida datele dalla educazione famigliare; ma dalla parte di Robert era maman, per la quale abbigliarsi ‘sans façon’ non significava necessariamente mancare di eleganza, se si sapeva portare quanto si aveva addosso; non c’era chi non sapesse, del resto, che lei stessa aveva sempre indossato, senza complessi, capi per originalità anche ai limiti dell’ortodossia del vestire e di quanto, per convenzione, si addice ad una signora quarantenne; a detta di Nicole, bastava ‘le physique du role’, secondo Roberto, invece, ci voleva ‘un fisico bestiale’.

Questa diatriba sulle virtù trasformistiche del giovane Sanfilippo potrebbe apparire del tutto superficiale e capricciosa, se non fosse una teoria degna di considerazione quella secondo la quale non c’è niente come il proporre agli altri una certa immagine di sé oppure un’altra che parli del mondo che ci portiamo dentro; e non fu davvero un caso se proprio il cambiamento esteriore di Roberto favorì il suo più completo avvicinamento a Luca, provocando la caduta delle residue barriere formali ancora resistenti ad una reciproca confidenza totale. Nel pomeriggio del giorno dopo la cena di Angela, i due ragazzi si videro di nuovo a Pietrabuona, e decisero di fare una girata in bicicletta. Si diressero verso nord: al crocevia del ponticino presero a sinistra, affrontando la salita di slancio; superarono il bivio per Medicina, si lasciarono sulla destra Aramo e, attraversato San Quirico, raggiunsero Castelvecchio. Un’impresa non da poco per loro che avevano un allenamento molto sommario nelle gambe. Fecero merenda a un tavolino della trattoria La Pieve, con un panino alla mortadella e il tè freddo che portavano nelle borracce delle mountain bike. Essendosi aggiunta al feeling di cui già disponevano la sintonia creatasi pedalando insieme, soffermati i due al tepore dei caloriferi della trattoria, Roberto si confidò con l’amico, e gli partecipò le sue traversie, dalle sofferenze per la propria malattia psichica ai problemi pratici che questa induceva, alla tragica perdita del padre, figura da lui per un verso grandemente amata e, per l’altro, ripulsa a causa delle sue mutevolezze. Era il ricordo di un uomo che un tempo lo entusiasmava tirando fuori dal cilindro idee sempre nuove, prospettive di imprese eccitanti da realizzare insieme, ma che lo abbandonava poi, disamorandosi ad esse, prima di condurle a termine o addirittura prima di cominciarle, lasciandolo con l’amaro in bocca, e nel cuore un pesante senso di incompiuto e di disillusione. Così si era disfatto anche della casa con le vetrate e neppure era chiaro se l’avesse mai amata o no. Persona di buona socievolezza, era fondato il dubbio che curasse le pubbliche relazioni nell’ambito cittadino soprattutto allo scopo di allargare il giro delle frequentazioni del suo negozio. In fin dei conti, come tutti nell’ambiente di Pescia sapevano, l’unico vero grande interesse del padre era il successo commerciale e per esso avrebbe venduto l’anima al diavolo. Con la moglie si comportava come con il figlio: portava alle stelle qualsiasi progetto, fosse una vacanza insieme o l’acquisto di un quadro d’autore, e poi lasciava che si sgonfiasse fino a far cadere ogni interesse. Per maman andava comunque bene anche così; il suo spirito d’iniziativa veniva frustrato, ma gli aggiustamenti non le pesavano troppo e si era abituata a venire incontro à cet homme si extravagant, perché temeva più di ogni altra cosa le lacerazioni famigliari. L’innamoramento di Attilio per Leila era stato peraltro un fulmine a ciel sereno: per quanto avesse ancora l’aria da tombeur de femmes, non gli si conoscevano precedenti scappatelle, e Nicole faceva sicuro affidamento almeno sulla sua onestà coniugale. “Ora mi accorgo che era inflessibile soltanto per le cose che interessavano lui in prima persona e generoso quando il tornaconto dell’altro coincideva con il suo; però gli volevo bene – ammise il ragazzo, e si fermò qualche attimo a riflettere – quando ero bimbo, naturalmente, era il mio eroe, per ciò che mi raccontava di sé, e il mio amico clown, per la sua capacità di farmi divertire; più tardi, malgrado tutto, ho conservato per lui un forte attaccamento che credo si giustificasse come contropartita di quanto, in affetto, a modo suo riusciva ancora a darmi. La sua vita in famiglia è stata quella di un padre tanto presente e tanto assente. E ora mi manca, tu non ci crederai, ma mi manca tanto. Forse, fosse stato un po’ più attento ad ascoltarci, anch’io ne avrei avuto un maggiore beneficio e, in definitiva, tutti quanti, e lui stesso.”

“Ti posso chiedere – fece Luca, avvicinando la sua sedia al tavolo – da che cosa dipendono i tuoi disturbi? Valentina ed io ce lo domandiamo spesso; siamo rimasti prima colpiti e poi addolorati. Ma non rispondermi se non ti fa piacere”. “A dire il vero – spiegò Roberto – non so neanche io con certezza quale possa essere la causa. Più probabilmente si tratta di un concorso di cause. Io ricordo, quando avevo tre o quattro anni, le vacanze estive a Montpellier, a casa dei miei nonni. Mi faceva paura dormire nel lettino, da solo nel corridoio; provai anche a dirlo, mon grand père Roland se ne ebbe a male: “De quoi as tu peur, chez moi? di che cosa hai paura in casa mia?” il babbo, per giunta, mi canzonò dandomi del bébé; non ebbi più il coraggio di fiatare; la mamma, questa volta, non capì la delicatezza della situazione; nel buio soffrii la paura per molte notti, quell’estate; temevo qualcosa di indefinito, ma più di tutto che un assassin potesse entrare dalla finestra in fondo al corridoio e sopraffarmi; soltanto l’anno successivo ottenni una diversa sistemazione, in camera con i genitori. Ancora adesso quando ricordo quei momenti mi sento terrorizzato e passo certe notti senza chiudere occhio ma, chissà, le vere ragioni potrebbero essere altre; è stato come se i predoni mi avessero saccheggiato il cervello e poi fossero fuggiti in diverse direzioni, la mia mente si è dispersa per ogni dove. Ora, lo sai, mi sento meglio, spesso mi accorgo di avere la capacità di controllare le sensazioni di malessere, di riuscire a gestirle, a utilizzarle senza che diventino insopportabili, la paura mi da delle tregue o, almeno, non la temo più tanto. E così, a tratti, mi pare di riprendere gusto alla vita, di poter riavvicinare la gente….”

Ridiscesero sotto la pioggia mentre il tramonto relegava la luce in angoli sempre più stretti del pendio lungo il quale gli alberi ad alto fusto prevalevano su diverse varietà di erbe; tenevano una velocità ridotta per il pericolo di scivolare sopra le foglie infradiciate, e di uscire da una parte o dall’altra della strada, e quando giunsero a valle avevano le tutine inzuppate e i caschi lavati dall’acqua. I due, senza scendere dalla bici, si strinsero la mano destra livida per l’umidità ed il freddo e presero ognuno per casa propria: Luca si fermò a Pietrabuona e Roberto proseguì fino a viale Garibaldi; una doccia caldissima l’uno e un idromassaggio l’altro li rimisero in sesto per la serata, che passarono di nuovo insieme, anche con Valentina, in casa di maman Nicole, davanti al televisore, a vedersi Bruce Springsteen, the boss, in concerto da Milano. Alla fine, maman urlò che Bruce era il più grande.

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