Capitolo XXXVII

La casa con le vetrate

Tre famiglie della borghesia medio-alta ed alcuni personaggi non di contorno vivono amori, amicizie e professioni scambiandosi confidenze ed affetti; si può considerare un romanzo di costume figlio di un certo cinema francese degli anni ’70 cosiddetto confidenziale o intimistico di cui Michel Piccoli è rimasto l’interprete più significativo insieme ad un giovane Gérard Depardieu.
Il racconto si sviluppa nella periferia toscana ma, pur nella attenta e particolareggiata descrizione dei paesaggi, potrebbe avere ambientazione ovunque per la universalità dei temi trattati. Si osservano qui gli animi umani nelle loro relazioni geometriche più sottili e complesse e si fanno oggetto di una trama che si snoda in situazioni molto vicine alla realtà e particolarmente aderenti al mondo di oggi. La casa, che compare fin dalle prime battute del romanzo, ha un chiaro significato allegorico. Questo romanzo, il più conosciuto fra quelli di Aldo Carpineti, è stato scritto in parte nell’ultimo anno del periodo toscano dell’autore e per il resto contemporaneamente al suo rientro a Genova.

Aldo Carpineti

Aldo Carpineti
È nato a Genova il 12 ottobre 1949. Dopo la gioventù genovese, liceo Classico e laurea in Giurisprudenza ha fatto del cambiamento un modo di vivere; si è spostato per lunghi periodi nel Veneto e nelle Marche, tre anni a La Spezia, sedici in Toscana, per poi fare ritorno ogni volta alla vegia Zena. Prima sottotenente di vascello in Marina, poi funzionario aziendale nelle relazioni industriali, è stato anche manager di gruppi professionisti di musica classica, barocca, jazz. Ha pubblicato Stanzialità e Transumanze (2003) riflessioni in epigrammi su argomenti di varia natura, Finestre su Paesaggi Miei (2004) due racconti di cui il secondo è un noir, La casa con le vetrate (2006), Un amore Maturo (2012). Fra tutte le cose che fa abitualmente non c’è nulla che gradisca quanto sedersi al tavolino di un caffè o di un ristorante in compagnia della figlia Giulia.

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Dic 29

Capitolo XXXVII

Capitolo Trentasettesimo

di Aldo Carpineti

capitolo trentasettesimo

Dopo una lunga dormita, senza la sveglia alle sette, Giorgio dedicò il pomeriggio del giorno dopo a rivedere una sua comparsa di risposta per il Tribunale di Monsummano, problemi di confine in una corte comune a più caseggiati di diversi proprietari: si chiuse in studio e raccomandò che nessuno lo disturbasse, anche se era domenica. Giovanna e Andrea ebbero dunque via libera per togliersi il gusto di andare a ballare al Don Carlos, dancing di Chiesina Uzzanese, poi col sole che calava, decisero di rientrare a Pescia e si ritirarono in casa del professore, in viale Marconi, per concedersi un momento di intimità. Andrea viveva questa nuova storia in modo diverso dall’amore con Nicole: gli pareva di avere, adesso, una compagna intellettualmente più matura, con la quale rapportarsi da pari a pari, dal modo di fare e di pensare da signora, mentre Nicole gli dava l’impressione di una ragazzina dallo spirito gregario, che pendeva dalle sue labbra e si rifugiava volentieri in atteggiamenti di subordinazione rispetto a lui, anche quando non era necessario. Andrea sbagliava: dietro a un’apparenza fragile e quasi infantile, Nicole disponeva di idee chiare e di un carattere forte, anche più di quello della stessa Giovanna. La quale viveva nell’arco della stessa giornata due stati d’animo profondamente differenti: da una parte la soddisfazione derivante dall’eccitante scambio umano con un partner che, attraverso il suo estro, le faceva scordare cosa è la noia e le cambiava gli orizzonti da un momento all’altro anche soltanto con una parola; dall’altra il senso di colpa di cui era vittima la sera, in casa, il cuore pesante e il senso di soffocamento, manifestazioni del suo disagio nei confronti dei famigliari, a maggior ragione rendendosi conto di non aver perso nulla del proprio affetto verso Giorgio e i ragazzi.

La consulenza in cartiera aveva cominciato a risentire, nel giro di pochi giorni, dello stato d’animo di Giovanna e della sua diminuita disponibilità di tempo. I titolari erano preoccupati, perché si rischiava di vedersi sfuggire di mano il procedimento avviato e di non ritrovarsi a posto per l’appuntamento con la CE, col risultato di rimettere inopinatamente denaro e vedere sprecati gli sforzi profusi: così spingevano, anche in maniera pesante, perché Giovanna rientrasse in riga. Per lei era un altro motivo di ansia, le sembrava che mille eventi le capitassero addosso senza avere la capacità di controllarli. Un pomeriggio, in viale Marconi, Andrea parlò a Giovanna della sua gioventù a Jesi, nelle Marche, della sua università ad Ancona, confidenze da non fare a tutti, il professore aveva sempre avuto una reticenza a raccontarsi fanciullo, perché temeva che la propria immagine potesse uscirne ridimensionata agli occhi di chi lo ascoltava; preferiva lasciar vivere l’impressione, che veniva fuori invariabilmente dall’insieme delle sue particolarità, di essere stato sempre adulto, di non avere mai avuto un’infanzia; poi la accompagnò verso piazza Mazzini: “Dov’eri, oggi, Giovanna?” le chiese con voce dolce ma ferma Luzato, quando furono davanti al cantino per ruga degli Orlandi. Lei si voltò verso di lui, come colta in flagrante: “Perché? come sarebbe?” disse in istintiva difesa. “Ti ho parlato per un’ora – insistette Andrea – ed anche di argomenti sui quali non darei confidenza a chiunque, ma credo che tu non abbia sentito nulla; dov’eri? che cosa ti preoccupava tanto? e che cosa ti preoccupa ancora?” Giovanna abbassò lo sguardo per un lunghissimo momento, poi: “Ma non lo immagini? non lo immagini proprio? – rispose scuotendo il capo - sei entrato nella mia vita come un tornado, e l’hai sconvolta. Avevo una famiglia, ora vivo per felicità di un momento e per gioie rubate. Con te non posso più contare sulla mia tranquillità, ancora non ho del tuo carattere un’idea rassicurante né so dar credito definitivo a quel che dici. Emozionante, certo, ma mi chiedo quanto possa durare a questo modo: nella mia testa non c’è più un qualsiasi ordine, assaporo l’ansia di attendere l’attimo successivo, però non so che cosa sarà di me fra un’ora, mi sembra di vivere continuamente una situazione di emergenza, sempre a rincorrere qualcosa, senza arrivare mai in fondo. Non ho nemmeno più il coraggio di guardare negli occhi mio marito e trascuro anche i compiti sociali che mi sono data, così finisco per nuocere anche ad altri incolpevoli; mi ossessiona l’idea di finire dannata, prima che all’inferno, su questa terra – poi prese fiato un poco – io sono sempre stata per l’ortodossia delle scelte in tutta la mia vita, sai…. e mi sono completamente riconosciuta in quelle, perciò non mi sono mai sentita tanto sottosopra”. Andrea, se veniva messo in discussione, era solito perdere ogni resto della pazienza che aveva pure in scarsa quantità, e tagliar corto per evitare di sentire critiche che potessero riguardarlo; quando Giovanna, al massimo dell’apoteosi negativa, sibilò: “questo non è vivere, è una parodia amara della vita”, il professore accennò a protestare, poi ci rinunciò, travolto lui stesso, questa volta, dalla dialettica altrui, emise un piccolo grugnito di sprezzo, soffiò come un mantice dalla bocca e dal naso, poi biascicò soltanto un “ti saluto” disgustato, si morse il labbro inferiore e si allontanò ingobbendosi nella sua giacca verde petrolio.

Alle quattordici e venti del giorno dopo, Giovanna gli telefonò: “Scusami, Andrea, ieri sono stata una lagna; un momento così…. ho tanto da fare, molte responsabilità, non ci sono abituata. Questa mattina ho messo a posto diverse cose in cartiera, sai; ora sono di nuovo in pace con me stessa. Che cosa fai questo pomeriggio?” Si ritrovarono al bar Jolly, quello preferito dagli Olmo, a mangiare una crostatina con la marmellata di albicocche, ottimo dessert dopo il pranzo piuttosto essenziale che avevano consumato ognuno a casa propria. Poi riaffiorarono i soliti discorsi. Andrea mantenne la calma ma avvertì l’amica: “Guarda, Giovanna, io predico bene ma non sempre razzolo di conseguenza; non dimenticare mai che ho un caratteraccio e se mi dai addosso va a finire che mi fai andare fuori dai gangheri; anche nell’ambiente degli insegnanti sono conosciuto come un insofferente. Perciò, se vuoi, parlami pure dei problemi che ti creo, ma non esagerare o non ti reggerò”. “Sei contraddittorio, Andrea, - partì Giovanna – quando enunci le tue filosofie non chiedi che siano condivise poi, di fatto, neanche accetti che sia messo in discussione il senso che dai alla vita: temi forse che ne rimarrebbero scossi certi principi ai quali non puoi rinunciare? fra i due sei tu il più rigido, non io”. Andrea si fece oscuro: “A volte è indispensabile credere senza dubitare a ciò che i tuoi sogni ti fanno apparire come vero, altrimenti rischi di impazzire; e se lo credi con tutte le forze, trasformi in realtà i fantasmi che insegui, perché gli altri cominciano a pensarli come veri”. Ma Giovanna, per nulla intenerita, riprese ad incalzarlo: “Pretendi che gli altri abbiano sempre un modo di sentire in sintonia con il tuo? non è detto che tutti percepiscano il mondo allo stesso modo; ognuno ha il proprio bagaglio di esperienza e di sensibilità al quale non si può rinunciare soltanto per esserti compiacenti”. “Non sono né Aristotele né Giulio Cesare – riconobbe Luzato, buttandola finalmente in burla, per uscirne una buona volta – nel pensiero e nell’azione c’è chi è meglio di me, ma non mi fa piacere sentirmelo dire; però tu non rinunceresti mai a farmi il processo…”. “Andrea, lo sai – disse infine Giovanna valutando anche lei che fosse ora di finirla lì - le donne non sono mai contente, ma gli uomini senza di noi si sentirebbero perduti” e provò a sorridere. “L’importante è esserne convinte”, concluse Andrea ammiccando a sua volta.

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