Perché chiudere i porti non sia un chiudere i cuori
Il "problema migranti" ci obbliga a riflettere sul perché delle migrazioni e su cosa facciamo noi per essere solidali con gli ultimi della Terra
di Gianluca Valpondi
Il libro di Claudio Moffa "Enrico Mattei. Contro l'arrembaggio al petrolio e al metano. Una vita per l'indipendenza e lo sviluppo dell'Italia, del Medio Oriente e dell'Africa", Ed. Aracne, 2006 |
Per uscire dalla logica illogica del sistema del sistema e dell’antisistema, per arrivare a una qualche sintesi costruttiva tra ipotesi “sovranista” e ipotesi “mondialista”, è necessario capire in che senso andare. Ci viene in aiuto padre Sorge, con parole che sembrano giusto tagliate per l’oggi del “problema migranti”.
«Il superamento di una idolatria nazionalistica non è mai un passo indietro. Un Paese che si apre all’orizzonte europeo e mondiale, dove i problemi del Terzo mondo e degli equilibri internazionali vengono vissuti come propri, non è un Paese che subisce impoverimento o perde il senso della propria identità! Certo, questa nuova cultura della mondialità pone problemi nuovi, espone a nuovi rischi; ma sono i problemi e sono i rischi di chi diventa adulto. Se uno rimane chiuso in una visione “provinciale” dei suoi stessi problemi, diventa il vero conservatore e perde il passo con la storia. In questo senso possiamo dire che molti cattolici sono più “liberali” di alcuni liberali legati a vecchi schemi eurocentrici. Al contrario, uno degli effetti più salutari del cristianesimo, della visione cristiana della società e della storia, è che indubbiamente diventa coscienza di una crescita comune, di una nuova cultura di pace, offerta a tutti, credenti e non credenti» (Sorge, Uscire dal tempio, 1989).
Non è affatto detto che “mondialità” debba per forza far rima con mondanità o scadere nel mondialismo, e la “globalizzazione del poliedro”, auspicata da papa Francesco, è altro dalla stigmatizzata “globalizzazione della sfera”. L’interconnessione tra i popoli e le culture è un processo fisiologico insito nella stessa natura sociabile e socievole della persona umana e la famiglia dei popoli comprende tutto il genere umano. Indietro comunque non si torna, occorre andare avanti, le relazioni spirituali culturali politiche economiche finanziarie...tra i popoli della Terra sono senz’altro da rettificare, da assolutamente bonificare, ma annullarle o frenarle non si può, retrocedere dall’interconnessione è praticamente impossibile. I processi di cambiamento e di sommovimento oggi in corso sono tali per cui, per usare una felice immagine di Giovanni Marcotullio, se anche volessimo chiudere la porta ci cascherebbe addosso il muro. Siamo inevitabilmente interconnessi e interdipendenti. È solo normale allora che se vedo il campetto da calcio dove giocavo da bambino animato ora da un pezzo d’Africa mi ritrovi a bere una birra con Goodluck, nigeriano, e mi voglia interessare del perché lui, che oggi ne ha 22, a 10 anni lavorava mentre io ero in quinta elementare. È altrettanto normale per me sentirmi “africano” quando l’africano ricorda al bulletto italiano che Dio è grande, non è porco. Come anche è solo normale per me andare giornalmente a Messa dalle sorelle monache passioniste indonesiane piuttosto che ad altra pur sempre santissima celebrazione eucaristica feriale dove di coetanei non ne vedo o quasi. Cosa voglio dire? Che lo straniero è un mondo da esplorare con curiosità per l’umano che ci accomuna, sapendo del resto che “mio Gesù, io in verità non saprei vivere senza di Te. Il mio spirito si è fuso col Tuo. Nessuno comprende bene questo: occorre prima vivere di Te, per conoscerTi negli altri” (S. Kowalska). Chi non ha radici in se stesso ha paura che il diverso, lo straniero gli rubi l’identità, assieme ai soldi e al benessere; chi invece è radicato in Cristo, che è l’essenza dell’umanità, capovolge la situazione e investe l’altro, il diverso, la straniero con l’onda dell’amore divino che tutto trasforma in Se Stesso, anche se dovesse morirne. Perché l’amore non muore. E l’amore presuppone la pace, e la pace la giustizia, e la giustizia il perdono, e il perdono l’amore. E la politica, se non rinnega se stessa, è la più alta forma di carità. Non è la più alta forma di carità verso i propri connazionali o elettori, è la più alta forma di carità e basta. Che significa? Ad esempio, che se il mio vicino di casa sta male lo aiuto. E lo stesso vale per i popoli e le nazioni che son tutti vicini di casa, abitano tutti nello stesso condominio, il pianeta Terra. Se per far questo occorre chiudere i porti perché “aiutiamoli a casa loro”, bene, si chiudano i porti; ma se chiudere i porti significa “prima gli italiani” e agli altri se avanza, non siamo più nella logica della carità, perché sarebbe come, per il singolo, donarsi nel tempo libero e non invece fare della propria vita un dono. Ma siamo così sicuri che il nostro benessere sia messo a repentaglio dai diseredati del mondo e non piuttosto dai padroni del mondo? Dobbiamo lavorare per scongiurare in ogni modo la guerra tra poveri e promuovere piuttosto un’alleanza tra poveri e coi poveri. Cerchiamo di addentrarci nelle vite degli stranieri che arrivano da noi, cerchiamo di capire e smascherare le strutture di peccato che determinano povertà strutturali, cerchiamo di capire che il benessere per tutti sarebbe dietro l’angolo se la finissimo di guardarci in cagnesco. Cerchiamo di capire che i poteri forti dal pensiero debole che sfruttano l’Africa e mezzo mondo sarebbero messi a perdere se i governi occidentali facessero loro guerra per davvero. Che “aiutiamoli a casa loro” vuol dire farla finita col destabilizzare gli Stati attraverso indebitamenti iniqui che privano della sovranità, vendendo armi a destra e a manca, corrompendo con fiumi di denaro funzionari e politici per accaparrarsi, nel caos voluto, ogni genere di risorse, fino al traffico degli esseri umani. Questi cattivoni! Cinici! Siamo noi: nazisti coi guanti bianchi, ammazziamo i nostri figli, che ce ne fotterà di ‘sti negri. Ma no, l’anima buona dell’Italia non è morta con Enrico Mattei.
Mercoledì 4 luglio 2018