di Francesca Camponero
Le parole sono importanti. Le parole producono nella mente onde sia in superficie che in profondità, provocano reazioni, richiamano suoni e immagini, analogie e ricordi, paure o speranze.
Stephen Jay Gould, molti anni fa, scriveva che la pubblicità ha modificato l’uso delle parole, ricordava che quando era bambino c’erano tre barrette di cioccolato: piccola, media e grande. Poi la stessa casa produttrice ha cambiato gli aggettivi e la barretta più grande è stata chiamata “la gigantesca”. Gli spettacoli televisivi sono “straordinari”, “fantastici”, “meravigliosi”. Al mio paese la festa di San Mauro a Varcavello (frazione di Diano Castello) con alcune bancarelle e un chiosco per la farinata è definita l’evento dell’anno (comunque per la bellezza e la serenità del posto, pardon della location, vi consiglio di andarci).
L’enfasi è passata dalla pubblicità, alla politica parlamentare, alle televisioni. Un viaggio da Genova a Roma, con il ritardo del treno di tre ore e la mancanza dell’aria condizionata, diventa un’odissea, tragico, insopportabile, inumano. Come descrivere allora il viaggio in un gommone stracolmo nel mare in tempesta e con la necessità di gettare fuori bordo i più deboli, deceduti durante la traversata? Si scrive che un bambino, protagonista di un brutto incidente stradale con alcuni feriti gravi, ha subito uno shock terrificante, come esprimersi per un minorenne che ha visto la madre stuprata in un “campo di intrattenimento” libico e poi ha affrontato da solo il viaggio in gommone verso l’Italia?
Mancano le parole, gli aggettivi, le metafore.
Thomas Samuel Kuhn ha scritto che con la rivoluzione scientifica servirono parole nuove. Oggi forse bisognerebbe fare la stessa cosa.
Per riportare la verità di certi drammi vissuti dai migranti è necessario ascoltare le storie raccontate da chi le ha vissute. È quello che abbiamo fatto, grazie anche ad Alessandra Ballerini, nell’assemblea contro il decreto sicurezza al Teatro Auditorium di Via Garibaldi a Genova il 16 gennaio. Questi giovani quando raccontano non usano parole forti, non urlano, non enfatizzano, anzi, spesso per pudore, non si soffermano sugli aspetti più drammatici, ma le loro parole provocano nei cervelli di chi ascolta onde in profondità che suscitano reazioni emotive. Colpiscono i cuori e stigmatizzano, senza neanche citarli, i propagandisti del razzismo e dell’odio. Per capire bisogna dare la parola agli immigrati, lo abbiamo fatto, lo faremo ancora.
Domenico Saguato, Genovasolidale
Martedì 22 gennaio 2019
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